Quando il medico è esaurito
Da sempre si sa che alcuni lavori sono particolarmente gravosi e usuranti. Essi sono riconosciuti anche a livello sociale (in Italia esiste una lista di categorie di lavori usuranti che viene aggiornata periodicamente) e ai lavoratori è riconosciuto un trattamento particolare (per es. il pensionamento anticipato). Oltre al dato oggettivo di lavoro gravoso, esiste anche il dato soggettivo; gli effetti logoranti sono maggiori per chi lavora per necessità, rispetto a chi ama il proprio lavoro e lo fa per scelta. In questo caso la gravosità è compensata dalla gratificazione che si trae dallo svolgere un lavoro scelto per la realizzazione personale. Io ho avuto la fortuna di poter fare il lavoro che avevo scelto per idealità umanitaria fin da ragazzo: il medico, e l’ho sempre considerato il lavoro più bello. Particolarmente appagante è lavorare come medico accademico, che associa all’attività clinico assistenziale, quella dell’insegnamento e della ricerca. Le gratificazioni vengono dal sentirsi utile alla società curando i malati e ricevendo la loro riconoscenza, dalla possibilità di poter trasferire le proprie esperienze e conoscenze ai futuri e ai giovani medici, dal partecipare allo sviluppo della scienza e dal sentirsi parte della comunità scientifica internazionale. La passione sul lavoro aiuta a resistere al peggioramento della situazione lavorativa. È diventato difficile e faticoso fare il medico. Con l’aumento della burocrazia e dell’uso crescente di procedure, il comportamento e la prassi medica sono stati sempre più standardizzati e codificati, condizionando l’autonomia, che è uno dei cardini della professione medica. Quest’ultima è ulteriormente ridotta perché la medicina è sempre più vincolata e limitata dalle risorse economiche. La situazione si è progressivamente aggravata negli ultimi anni e circa il 50% dei medici sperimenta la sindrome del burnout (Journal of Internal Medicine, 2018, 283; 516). Allora il medico si sente esausto, sia fisicamente che emotivamente. Si verifica una spersonalizzazione e carenza di empatia con un distanziamento emotivo dai pazienti e una conseguente riduzione dell’interesse e della sensibilità per essi. Si affievoliscono le motivazioni che avevano indotto alla scelta della medicina, e si subisce un senso di ridotta realizzazione personale. All’esaurimento del medico contribuiscono un’esposizione cronica a situazioni stressanti, come un carico di lavoro eccessivo, turni lunghi e pesanti, un’alta pressione sulle quantità delle prestazioni e sulla produttività clinica, una mancanza di supporto da parte dell’organizzazione sanitaria e una scarsa valorizzazione del lavoro; contribuisce anche la maggior consapevolezza acquisita dal paziente, che porta ad un sempre maggiore atteggiamento di rivendicazione in caso di supposta malpractice. Il burnout può influenzare negativamente la salute fisica e mentale del medico riducendone la qualità della vita, inducendo un aumento del tasso di ansia e depressione, una minore soddisfazione professionale e una riduzione della motivazione a lavorare. Può risentirne anche il paziente, in quanto si può verificare una diminuzione della qualità delle cure, anche legata ad una maggiore probabilità di commettere errori. La situazione è ancora più pesante per i medici universitari. Non si tiene conto che il loro compito oltre alla clinica, è quello della ricerca e della docenza. Si calcola che l’assistenza sanitaria occupa la maggior parte del loro tempo- dal 70 al 75%-. (Perm J 2023; 27:23). Ciò è un ulteriore motivo di stress, in quanto la loro carriera
dipende fondamentalmente dalla quantità e qualità delle pubblicazioni scientifiche che riescono a produrre. Inoltre, ne risente l’attività didattica per la quale non resta tempo sufficiente, con ricaduta negativa sulla preparazione dei futuri medici. La situazione è tale per cui sono significativamente aumentate le dimissioni volontarie, che si aggiungono ai pensionamenti, causando una riduzione della forza lavoro con ulteriore aggravamento del carico di lavoro. In Italia, secondo i dati raccolti da Anaao Assomed, tra il 2019 e il 2021 le dimissioni volontarie dagli ospedali sono state circa novemila, cui se ne aggiungeranno altrettante nel triennio 22-24, in quanto la tendenza non sembra diminuire, anzi è previsto un aumento: ogni giorno negli ospedali italiani si licenziano dieci medici. Gli anni terribili della pandemia hanno accentuato questo fenomeno, e ora il flusso in uscita sembra inarrestabile. Il problema è complesso e allarmante: è importante che le organizzazioni sanitarie e la società in generale riconoscano questa situazione e prendano misure idonee per prevenire il disagio di questo importante gruppo di professionisti, disagio che si ripercuote sulla qualità dell’assistenza.
Angelo Gatta
Professore Emerito di Medicina Interna
Università di Padova