Nella mia vita accademica ho ricoperto vari ruoli, in gran parte elettivi. In una di queste competizioni, ricordo che
una Collega dubitava della mia elezione. Alla domanda del perché, mi rispose: “non ti rendi conto che tanti colleghi ti invidiano perché, pur essendo giovane, hai già raggiunto importanti incarichi? Certamente non ti voteranno, perché non vogliono che tu ne aggiunga un altro”. Rimasi colpito; non avrei mai immaginato una risposta del genere e soprattutto non avrei mai pensato di poter suscitare invidia.
Ma che cosa è l’invidia e cosa rende invidiosa una persona? L’invidia è considerata un’emozione negativa, che si ritrova in tutte le epoche e culture, come fosse connaturata alla natura umana; un sentimento negativo caratterizzato da un desiderio di ciò che non si ha (o si ritiene di non avere) e che altri possiedono, non solo beni materiali, ma anche qualità e competenze, stato sociale o successo; è associato a risentimento, dispiacere, frustrazione, malessere e sofferenza personale. Nasce da un confronto sfavorevole con gli altri, che ha il fondamento in una bassa autostima e in un senso di inferiorità. Può suscitare malanimo e, a volte, vera ostilità verso chi si percepisce come superiore o più fortunato, fino a desiderare il suo male o addirittura provocarlo (Yochi Cohen-Charash and Elliott C. Larson, 2017). Non fa parte delle emozioni fondamentali o primarie, ma deriva da una mescolanza di alcune di esse: collera, paura, tristezza. È uno dei sette vizi capitali, insieme all’avarizia, la superbia, l’accidia, la lussuria, la gola e l’ira. Per invidia Caino uccise Abele e nei tempi correnti è stato il “veleno dell’invidia” a spingere Antonio De Marco ad uccidere a Lecce nel 2020 due fidanzati, di cui era stato inquilino nello stesso appartamento, solo perché non sopportava che fossero felici. “Li ho uccisi perché erano troppo felici e per questo mi è montata la rabbia”, ha detto subito dopo l’arresto (Corriere della Sera, 20 settembre 2020). L’invidia si definisce nella sua veste peggiore nella confessione di Guido del Duca nella Divina Commedia di Dante: “fu il sangue mio d’invidia sì riarso, che se veduto avesse uom farsi lieto, visto m’avresti di livore sparso (Purgatorio canto XIV, 82) .Quindi l’invidia può essere considerata una sorta di malattia dell’anima che, se divenuta cronica perché non gestita, può portare danni alla persona invidiata, ma anche avere ripercussioni negative sulla salute fisica e mentale di chi la prova. A livello psicologico può innescare stress cronico, ansia, fobie, depressione, ma può provocare anche problemi fisici. Lo stress prolungato può aumentare il rischio di patologie cardiovascolari, come ipertensione arteriosa, e coronaropatie; può influire negativamente sull’apparato digerente, provocando patologie come ulcere, gastriti o disturbi digestivi cronici (come la sindrome del colon irritabile). Anche nella storia della medicina l’invidia è stata vista sia come un fenomeno patologico, sia come un fattore che contribuisce a varie malattie, una forza corrosiva e distruttiva che può influenzare la mente e il corpo. L’invidioso viene descritto come un individuo malato, pallido, emaciato, sofferente, pieno di rancore e rabbia, da evitare perché portatore di malanni (capace di fare il “malocchio”, portare malasorte con lo sguardo) (Lina Minou, 2017).
Con lo sviluppo della psicologia e della psichiatria, l’invidia ha assunto una dimensione più psicodinamica e neurobiologica, confermandosi comunque nella sua complessità. Nella letteratura scientifica sono stati distinti due tipi di invidia: benigna e maligna (Crusius & Lange, 2014). La benigna motiva ad emulare la persona invidiata e a migliorarsi per eguagliarla, aumentando così la stima di sé; la maligna suscita sentimenti di malevolenza, rabbia e odio e motiva a danneggiare l’invidiato. Grazie agli studi di neuroscienze, in particolare attraverso l’uso della risonanza magnetica funzionale, è possibile identificare le aree del cervello coinvolte nell’elaborazione dell’invidia. Esse formano una rete complessa che elabora il sentimento dell’invidia e i suoi effetti (Shuchang Dai, Qing Liu et Al.,2024). Rifacendomi alla esperienza personale dell’invidia, di cui parlavo all’inizio, in quella competizione io fui eletto Preside della Facoltà di Medicina a larga maggioranza; quindi, la Collega aveva sbagliato nelle sue considerazioni e previsioni: o io non avevo suscitato invidia; o l’invidia suscitata non era maligna, ma quella benigna; o forse la Collega si era espressa in quel modo per una sfumatura di invidia.
Angelo Gatta
Professore Emerito di Medicina Interna
Università di Padova