Nella sala d’aspetto del medico
Nella precedente nota su questa rubrica (Hepatos, ottobre 2023), mi sono soffermato a richiamare una
particolare ottica che caratterizza la visione “dalla parte del paziente”, quella che si realizza quando la persona malata è un medico. Osservavo che tale condizione può aiutare a riflettere con attenzione e sensibilità alla relazione professionale del medico con le persone che a lui si rivolgono. Aggiungo, ora, che si tratta di una particolare applicazione di quella che è stata definita, fin dall’antichità (e ripresa positivamente nel Vangelo), “regola d’oro” e che può essere così enunciata: “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” ma anche (rovesciando i termini, e cogliendo, nel nostro caso la dimensione positiva della responsabilità professionale) “fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”.
Proseguendo in questa riflessione, volta a cogliere aspetti della vita professionale del medico solitamente ignorati o ritenuti secondari, intendo soffermarmi ora su quella particolare situazione in cui egli si può trovare quando è in attesa, insieme ad altre persone, di una visita medica. Nella “sala d’aspetto”, appunto. Una esperienza che ho più volte fatto personalmente, talora come “paziente”, talora accompagnando un familiare.
Va subito rilevato che la particolare condizione (“collega”) in cui si trova il medico che richiede la visita facilmente consente di evitare le attese e non c’è da stupirsi, quindi, se a molti può mancare l’esperienza di cui intendo parlare. Una sorta di “scorciatoia “ che, agli indubbi vantaggi in termini di tempo e procedura burocratica, associa però il (negativo!) “privilegio” di continuare a sentirsi “diversi” dai comuni pazienti. E quindi impedisce di porsi correttamente dalla loro “parte”.
Tra le diverse situazioni, scelgo quella della sala d’aspetto del proprio medico di medicina generale, e ne spiego il motivo. A differenza dello specialista, che solitamente viene interpellato solo per particolari (e spesso circoscritte nel tempo) esigenze di diagnosi e/o terapia e in relazione ad una determinata patologia, al primo il paziente guarda come il medico che lo conosce e lo segue nel tempo. Ma è anche quello che (per lo più) conosce gli altri membri della famiglia, tanto che giustamente rivendica il proprio ruolo di “medico di famiglia”, come chiede di essere chiamato.
Cosa avviene, dunque, nella sala d’aspetto di questo medico? Ci si trova ad attendere il proprio turno insieme ad altre persone, spesso non conosciute, che fanno però riferimento al medesimo professionista. Per esigenze tra loro anche diverse e con urgenze differenti. Persone che conoscono quel medico spesso da tempo e con il quale hanno condiviso negli anni episodi personali e familiari anche importanti. La “sala d’aspetto” non raramente diviene così un luogo in cui esperienze e commenti vengono messi in comune con i presenti, al di là di ogni preoccupazione di “privacy”. In questo clima di reciproche confidenze emergono anche ansie e interrogativi sulle proprie condizioni di salute, ma pure sulla competenza di quel medico e sulla efficacia di precedenti suoi interventi in situazioni analoghe.
Quello che, però, ogni volta mi colpisce di più in queste narrazioni “pubbliche” sono le valutazioni sul suo modo di relazionarsi con coloro che lo interpellano. Nelle mie esperienze, accanto al prevalere di opinioni positive, non mancano rilievi critici. Avviene però che talvolta sono proprio altri tra i presenti che aiutano chi si lamenta a comprendere meglio le difficoltà di lavoro del loro comune medico. Non mancano nemmeno riferimenti alle sue vicende personali e familiari, a dimostrazione che la relazione medico/paziente non è mai unidirezionale e che il secondo partecipa anch’egli, in qualche modo anche affettivamente, agli eventi della vita del primo. Nell’esprimere ciascuno le proprie considerazioni, comunicandole e condividendole reciprocamente, si realizza così, nella “sala di aspetto”, una sorta di affiancamento sociale all’operato del medico, che solitamente egli ignora.
Davvero sarebbe prezioso che colui che è stato loro assegnato come “medico di base” potesse riconoscersi, nelle narrazioni dei propri pazienti, come un medico che sa guadagnare e mantenere con loro quel rapporto umano e professionale che, a buon diritto, è in grado di giustificare il suo ritenersi per tutti un vero “medico di fiducia”.
Paolo Benciolini
Professore Ordinario di Medicina Legale
Università di Padova