Ho una malattia epatica avanzata: che tipo di dieta mi consigliate? Posso attuare il digiuno intermittente per correggere il mio sovrappeso?
Fatto salvo la presenza di allergie alimentari o patologie specifiche (ad es. la celiachia), numerosi studi dimostrano che la cosiddetta dieta mediterranea è la migliore scelta per i pazienti con malattia epatica avanzata. Per attuarla al meglio è utile considerare la quantità di cibo da assumere come se stesse su una piramide. Alla base della piramide ci sono gli alimenti che vanno assunti in maggior quantità, ovvero i cereali (possibilmente integrali) e i loro derivati (pane, pasta, riso, orzo, farro, polenta, cous cous), la verdura (di cui è bene assumere almeno due porzioni al giorno) e la frutta (consigliata in quantità pari a una-due porzioni al giorno). A un livello superiore si trovano gli alimenti da assumere con regolarità come latte e derivati (a ridotto contenuto di grassi), olio d’oliva e grassi di origine vegetale che possono derivare da frutta secca, semi ecc. Salendo troveremo legumi, pesce (in particolare pesce azzurro) e uova. Nella parte più alta della piramide restano gli alimenti da assumere con molta moderazione, rappresentati dalla carne (in particolare quella rossa), gli insaccati, i formaggi grassi e i dolciumi (comprese le bevande zuccherate). Ovviamente la quantità di cibo va considerata per ogni individuo sulla base del suo grado di nutrizione e delle comorbidità (un paziente obeso con un’epatopatia metabolica avrà ovviamente bisogno di una restrizione nell’apporto calorico).
A queste raccomandazioni generali, poi, andrebbero associate delle indicazioni specifiche a seconda del grado di compromissione della funzionalità epatica e della presenza o meno di complicanze della malattia. I pazienti con ascite, ad esempio, dovrebbero limitare l’introito di liquidi a non più di 1-1,5 l di acqua al dì (considerando anche gli altri liquidi come brodo, caffè ecc) e limitare l’apporto di sale. Questo significa utilizzare il sale per la preparazione base degli alimenti (ad es. per salare l’acqua di cottura della pasta) ma non aggiungerne extra, e soprattutto limitare l’apporto di cibi naturalmente ricchi di sale come insaccati, formaggi stagionati, cibi precotti, salsa di soia, dadi e insaporitori.
Bisogna inoltre ricordare che la cirrosi epatica comporta un’alterazione nel metabolismo del paziente con conseguente aumento del consumo energetico. Per far fronte a questa aumentata necessità, l’organismo deve attivare dei meccanismi di produzione di energia alternativi dal pattern classico, che hanno come effetto la riduzione della massa muscolare dell’individuo. Ciò è ancora più evidente in caso di digiuno prolungato. È quindi fondamentale evitare lunghi periodi senza assumere cibo, introducendo qualche spuntino oltre ai pasti principali. Nei pazienti con encefalopatia epatica questo concetto è ancora più importante, perché il digiuno prolungato favorisce la produzione di ammonio. Da queste considerazioni si può concludere che il digiuno intermittente non apporta quindi benefici ai pazienti affetti da epatopatia avanzata.
Infine, è bene ricordare che, a prescindere dalla causa primaria dell’epatopatia, non esiste un quantitativo di alcool che possa essere considerato sicuro, ed è quindi necessario mantenere l’astinenza assoluta dalle bevande alcoliche.
Marta Tonon
Dirigente Medico presso clinica
Medica 5, Azienda Ospedaliera di Padova
Specialista in geriatria
Dottore di ricerca in scienze epatologiche e trapiantologiche
Sono affetto da cirrosi da pregressa infezione da hcv, ora eradicata; a quali vaccinazioni sarebbe opportuno che mi sottoponessi?
I nuovi farma- ci antivirali per il virus HCV hanno permesso negli ultimi anni una straordinaria rivoluzione nel mondo della medicina permettendo di trattare le infezioni da virus HCV, un virus epatotropo tra le cause più diffuse di epatite cronica e cirrosi epatica nel mondo. L’eradicazione del virus dopo terapia nei pazienti cirrotici può portare ad un miglioramento clinico, ma la cirrosi è una condizione cronica che rappresenta il quadro terminale di compromissione anatomo-funzionale del fegato e pertanto permane in questi casi anche nonostante il successo della terapia antivirale. Per questo motivo, nel contesto della domanda posta, il punto fondamentale da cui partire rimane la patologia di base, a prescindere dalla sua eziologia (il virus appunto). I pazienti cirrotici sono pazienti con una condizione di fragilità dettata dalla patologia cronica epatica. Secondo il Piano nazionale di prevenzione vaccinale (PNPV) «la categoria dei gruppi di popolazione a rischio per patologia è costituita da individui che presentano determinate caratteristiche e particolari condizioni morbose (patologie cardiovascolari, respiratorie, metaboliche, immunodepressione, etc.) che li espongono ad un aumentato rischio di contrarre malattie infettive invasive e sviluppare in tal caso complicanze gravi», come, appunto, possono essere i pazienti cirrotici. Il PNPV fornisce un elenco che riporta per ciascun vaccino le condizioni di salute per le quali risulta indicata l’immunizzazione, considerato l’aumentato rischio in caso di infezione o di insorgenza di complicanze di malattia anche gravi per questi soggetti, consultabile anche online.
Nello specifico quindi per i pazienti cirrotici, se non ci sono controindicazioni specifiche che vanno valutate in maniera specialistica caso per caso, è consigliata la vaccinazione per i virus epatici HAV e HBV, causa rispettivamente di epatite A ed epatite B (con rischio aumentato nei pazienti cirrotici di evoluzione fulminante).
Annualmente è indicata la vaccinazione per i virus influenzali stagionali, e dalla recente pandemia da Covid19 anche la vaccinazione completa e i richiami indicati secondo aggiornamento ministeriale per il virus SARS-CoV2.
Secondo le indicazioni del Ministero della Salute un’altra vaccinazione consigliata nei pazienti affetti da cirrosi è la vaccinazione anti-pneumococcica, offerta gratuitamente a tutte le persone sopra i 65 anni di età, visto l’elevato rischio di sviluppare polmoniti gravi con decorso sfavorevole.
Ricordiamo inoltre sempre gli opportuni richiami ogni 10 anni per le vaccinazioni antitetaniche effettuate solitamente nell’infanzia.
Valeria Calvino
Medico in Formazione Specialistica in Medicina Interna ad indirizzo Epatologico
Clinica Medica 5
Università di Padova
Ho una cirrosi epatica ma, ultimamente mi sembra di urinare poco e mi si gonfiano le gambe. Cosa posso fare?
Nella cirrosi epatica caratteristicamente si verifica una vasodilatazione arteriosa periferica, soprattutto a livello addominale. Nelle fasi iniziali di malattia, quando i pazienti sono solitamente asintomatici ed ancora in buone condizioni generali di salute, tale vasodilatazione viene compensata dall’aumento della gittata cardiaca, cioè la quantità di sangue che viene espulso dal cuore nell’unità di tempo. Ciò permette che la pressione arteriosa e il volume efficace di sangue arterioso si mantengano entro i limiti di normalità. Negli stadi avanzati della cirrosi, quando i pazienti spesso divengono sintomatici e sviluppano alcune complicanze della malattia, la vasodilatazione nel distretto addominale risulta molto marcata e non può essere più compensata da un ulteriore aumento della gittata cardiaca. In questo contesto, la pressione arteriosa viene mantenuta grazie all’attivazione di sistemi che aiutano a conservare il vo-lume di sangue arterioso e la pressione arteriosa, agendo a livello renale ed in particolare promuovendo la ritenzione renale di acqua e sodio.
Questo è il meccanismo che nel suo caso potrebbe essere il principale responsabile della riduzione della quantità giornaliera di urine prodotte. Va considerato poi che nella cirrosi epatica la funzionalità del fegato, ormai fibrotico, è compromessa, con riduzione della capacità dell’organo di produrre proteine.
In particolare la proteina albumina ha un ruolo fondamentale nel richiamare liquidi dai tessuti periferici al sistema circolatorio, e di conseguenza una sua carenza predispone alla formazione di edemi. Se a questo aggiungiamo la già descritta tendenza nei soggetti con cirrosi epatica a trattenere liquidi a livello renale, si può comprendere perché la comparsa del gonfiore alle gambe sia un evento purtroppo comune in un soggetto nelle sue condizioni di salute. Andrà però escluso con esami specifici che la riduzione della quantità di urina prodotta e la comparsa di edemi agli arti inferiori da lei lamentati siano conseguenza di altri problemi, in particolare riconducibili a patologie ad origine primariamente cardiaca o renale. Una volta eseguiti gli accertamenti del caso, per contrastare la formazione di edemi alle gambe, le verrà consigliato di ridurre la quantità di liquidi assunti giornalmente, in linea generale a non più di un litro al giorno, di limitare l’assunzione di cibi ad alto contenuto di sale e di assumere farmaci diuretici per aiutare i reni ad eliminare i liquidi in eccesso. In casi specifici poi, il suo medico potrà valutare l’indicazione ad altri approcci terapeutici, come ad esempio l’infusione di albumina o la somministrazione di farmaci che contrastano la vasodilatazione arteriosa addominale.
Marco Di Pascoli
Ricercatore Universitario,
Università di Padova
di Padova
Ho l’artrosi e devo assumere spesso degli antinfiammatori. Possono fare male al fegato?
I farmaci antinfiammatori non steroidei, pur essendo fra loro eterogenei per struttura chimica, sono un gruppo di composti piuttosto omogenei per quanto riguarda gli effetti indotti dalla loro somministra-zione: infatti, oltre ad agire come antinfiammatori, svolgono attività antidolorifica ed antipiretica, ovve-ro combattono il dolore e la febbre. Per queste loro proprietà, vengono frequentemente prescritti nella terapia del dolore di numerose malattie del sistema muscolo-scheletrico, fra cui l’ artrosi.
Questo spiega come mai questa classe di farmaci sia tra le più utilizzate a livello mondiale.
Sebbene gli eventi avversi più frequenti di questi farmaci siano a carico del tratto gastrointestinale, cardiovascolare e del sistema renale, alcuni individui possono sviluppare un danno epatico di tipo “idiosincrasico”, ossia si verifica un’ eccessiva e violenta reazione quando entrano in contatto con que-sta sostanza, con effetti gravi, a volte anche mortali, a carico del fegato.
Un caso particolare è quello della nimesulide, che non è mai stata commercializzata in alcuni paesi e ritirata dal mercato in altri. Anche se il rapporto rischio/beneficio ha mostrato un profilo favorevole, in linea con le indicazioni dell’Agenzia di Medicina Europea (EMA), nel nostro paese sono state applica-te restrizioni che riguardano le indicazioni, formulazioni e la durata del trattamento con questo farma-co.
Va specificato che gli antinfiammatori non steroidei sono farmaci “sintomatici”, ovvero, non cu-
rano la malattia ma il sintomo. In generale, il consiglio del medico è quello di limitarne il più possibile l’uso. Tuttavia quando è necessario, sotto controllo medico, tali farmaci possono essere utilizzati per brevi periodi senza particolari problemi. In particolare, nei soggetti con epatite cronica si possono im-piegare tutti i farmaci necessari, mentre la situazione è diversa nella cirrosi, soprattutto avanzata, dove si devono possibilmente evitare.
Questa raccomandazione vale specie se il trattamento si dovesse protrarre nel tempo. In questo caso il paziente deve esser tenuto sotto stretto controllo per cogliere eventuali complicazioni che riguardano sia la compromissione della funzione epatica che del possibile sviluppo o peggioramento di danno re-nale, particolarmente critico nei pazienti con malattia epatica avanzata.
Patrizia Pontisso
Professore Associato di Medicina Interna Università di Padova
Che cos'è il fegato?
Strategicamente localizzato a livello della parte alta dell’addome destro, il fegato ha come compito fondamentale quello di drenare il sangue di provenienza intestinale, catturarne le sostanze nutritive in esso contenute derivanti dalla dieta, metabolizzarle e distribuirle agli altri organi. E’, insomma, il laboratorio chimico del nostro organismo.
L'Aulin fa male?
La nimesulide (Aulin®) è un anti-infiammatorio non steroideo che è in commercio da oltre 20 anni; il suo uso quale anti-dolorifico ed anti-infiammatorio è molto diffuso in italia ed in Francia, mentre è scarsamente utilizzato in altri paesi ,quali Gran Bretagna e Scandinavia. Da molti anni sono stati segnalati sporadici eventi avversi a livello epatico, sia di entità minore (aumento delle transaminasi, transitori segni di colestasi) sia più raramente di elevata gravità (insufficienza epatica acuta). I meccanismi coinvolti nella genesi di questi danni epatici non sono chiaramente definiti, ma è sicuro che non sono dose-dipendenti (cioè non sono dovuti ad un dosaggio ecessivo del farmaco), e che possono essere inquadrati nell’ambito dei fenomeni idiosincrasici, legati cioè ad un particolare metabolismo cui va soggetto il farmaco in questione in persone con particolari vie metaboliche geneticamente caratterizzate. Anche la differente frequenza di questi effetti collaterali in popolazioni con differente substrato genetico è in accordo con questa interpretazione. Bene hanno fatto quindi le autorità regolatorie italiane a richiedere particolare cautela nell’uso di questo farmaco, che attualmente è dispensabile dietro presentazione di ricetta medica non ripetibile, e che è indicato per trattamenti a breve termine. Semmai sorprende che queste precauzioni siano state introdotte solo di recente, a così lunga distanza dalle prime segnalazioni di possibile epatotossicità, ed una volta che il farmaco è diventato disponibile come generico.
Dal punto di vista pratico, ritengo che se una persona ha fato ripetuto uso di nimesulide senza comparsa di eventi avversi, è estremamente improbabile che vada incontro a seri problemi in futuro in conseguenza dell’uso di tale farmaco con le precauzioni attualmente consigliate. Se viceversa una persona non è mai stata trattata con tale farmaco, suggerirei di considerare la scelta di altri farmaci anti-infiammatori non steroidei, che sono disponibili sul mercato in ampia scelta
La Steatosi Epatica
– Prof. Paolo Angeli (Professore Associato in Medicina Interna – Università di Padova)
Otto anni fa in occasione di una visita ginecologica eseguii alcuni esami del sangue che dimostrarono positività per il virus C (anti-HCV positivo). Da allora ho eseguito ogni anno il test per HCV RNA che è risultato sempre negativo. Il mio curante dice che il fegato funziona bene . Ora vorrei avere un figlio, ma sono angosciata dall'idea di potergli trasmettere l'infezione. C'è questo rischio?
Gentile Signora, è noto che il virus C (HCV) si può trasmettere da madre a figlio, preferibilmente al momento del parto, tuttavia la trasmissione avviene globalmente attorno al 5% dei casi in assenza di concomitante infezione con il virus dell’AIDS. Le mamme che trasmettono devono di regola essere viremiche, cioè risultare positive al test per HCV RNA che indica la presenza di virus replicante in circolo. Questo non è il suo caso. Inoltre possiamo escludere il caso di una viremia fluttuante perché lei ha eseguito numerosi tests tutti concordemente negativi. Dagli esami che mi allega vedo inoltre una costante normalità delle transaminasi ALT, il cui aumento farebbe pensare invece ad un danno epatico.
C’è da ritenere pertanto che Lei abbia avuto contatto con il virus C in passato, testimoniato dall’anticorpo anti-HCV, e che il virus sia stato eradicato (HCV RNA negativo). Il rischio di infettare il bambino nelle condizioni da Lei segnalate rimane quindi una possibilità remota e non controindica parto spontaneo e allattamento al seno
Che cos'è l'epatite A?
È una malattia infettiva acuta causata da un virus a RNA che colpisce il fegato.
Quanto è diffusa l'epatite A?
È presente in tutto il mondo, sia in forma sporadica che epidemica, ma con una maggior frequenza nei Paesi del sud del mondo.In Italia la malattia è endemica soprattutto nelle Regioni meridionali, dove più diffusa è la pratica di consumare frutti di mare crudi. Tuttavia, possono verificarsi epidemie o casi sporadici su tutto il territorio nazionale, legati non solamente al consumo di frutti di mare ma anche di altri alimenti (vegetali e frutta) o acqua (per es. di pozzo) contaminati.
Esiste un vaccino contro l'epatite A?
La protezione si raggiunge già dopo 14-21 giorni dalla prima dose, è quindi molto importante per proteggere rapidamente persone (es. familiari) venute in contatto con una persona affetta da epatite A o persone in procinto di recarsi all’estero in paesi a rischio.
Una seconda dose a distanza di 6/12 mesi dalla prima ne prolunga l’efficacia protettiva, fornendo una protezione per un periodo di 10-20 anni.
La vaccinazione è raccomandata nei soggetti a rischio, fra cui coloro che sono affetti da malattie epatiche croniche, coloro che viaggiano in Paesi dove l’epatite A è endemica, coloro che lavorano nei laboratori dove ci può essere contatto con il virus, gli omosessuali maschi, i soggetti che fanno uso di droghe e i contatti familiari di soggetti con epatite A in atto.
Ho il fegato grasso. Mi è stata data la vitamina “E” ad alte dosi. Mi fa bene?
Caro amico, la Sua domanda necessita di esaminare due problemi: 1) le cause del fegato grasso e 2) gli effetti della vitamina E.
1) Il fegato grasso, meglio definito come malattia epatica con fegato grasso da alcol (alcoholic fatty liver disease o AFLD) o non da alcol (non-alcoholic fatty liver disease o NAFLD) è una alterazione dovuta ad accumulo di trigliceridi ed acidi grassi liberi nelle cellule del fegato che possono determinare in una piccola percentuale di casi un danno molto grave con sviluppo di steatoepatite, cirrosi e anche di un tumore. Nella maggioranza dei casi invece la malattia non è grave e non peggiora. Le cause più comuni di NAFLD sono l’obesità ed il diabete. Purtroppo non è facile distinguere i casi che peggioreranno da quelli meno gravi e non è disponibile una terapia specifica, se si escludono i pazienti che sono “causa” del loro male, come quelli che abusano di alcolici o che sono obesi, per i quali la terapia è ovvia (astinenza dagli alcolici e calo ponderale con esercizio fisico). Tra le poche sostanze che hanno dimostrato una certa efficacia vi è la vitamina-E.
2) La vitamina E, per lo più rappresentata dall’alfa-tocoferolo, è un nutriente essenziale e vitale per l’uomo, un potente antiossidante liposolubile, presente in molti vegetali, ad esempio nella frutta, nell’olio di canapa, nell’olio d’oliva, nelle noci, nocciole, mandorle, e soprattutto nell’olio di germe di grano. Il contenuto vitaminico viene ridotto dai processi di cottura, soprattutto dalla frittura e dalla cottura al forno. Viene assorbita dall’intestino tenue ed a livello epatico viene incorporata nelle lipoproteine, per lo più nelle LDL, e secreta nel sangue per poi raggiungere i diversi tessuti. Viene poi metabolizzata ed escreta nelle urine e nelle feci. Nel fegato sono presenti depositi di Vit E.
Il suggerimento di assumere alte dosi di vitamina E viene quindi dall’ipotesi che essa possa agire nel fegato come antiossidante, prevenendo l’ossidazione degli acidi grassi polinsaturi, evento chiave nello sviluppo del processo di perossidazione lipidica, scatenato dall’azione di radicali liberi ed alla base della steatosi epatica e della sua complicanza, la steatoepatite. Essa potrebbe agire anche migliorando la sensibilità all’insulina, fattore molto importante. Numerosi studi clinici hanno dimostrato che la vitamina E migliora la steatosi epatica nella NAFLD.
Altri studi hanno suggerito che però non sia esente da effetti negativi. La sua tossicità è comunque molto bassa sino a dosaggi estremamente elevati.
Gli effetti collaterali sono rari: nausea, diarrea, astenia, crampi addominali, mal di testa. Può inoltre interferire con gli effetti di altri farmaci come gli anticoagulanti, gli antiaggreganti, gli inibitori di pompa protonica, le statine etc. Anche se la Società americana per lo studio del fegato consiglia l’assunzione di Vitamina E al dosaggio di 800 UI/giorno solo per i casi di steatosi documentata da una biopsia epatica, credo che di fronte ad una steatosi epatica grave, diagnosticata mediante ecografia il consiglio di usare la vitamina E sia corretto, non dimenticando però che il calo di peso in caso di sovrappeso, l’attività fisica, la dieta adeguata sono ancora più importanti.
Ho la cirrosi epatica ed ho qualche linea di febbre la sera. è legata alla mia malattia?
Il paziente con cirrosi presenta alterazioni della temperatura corporea sia a livello superficiale/cutaneo sia a livello profondo, che sono almeno in parte secondarie alla vasodilatazione splancnica e al circolo iperdinamico che caratterizzano la malattia. La cirrosi, infatti, si accompagna ad un aumento del flusso di sangue sia a livello splan-cnico – secondario alla vasodilatazione delle arterie che irrorano i visceri e all’apertura di circoli collaterali – sia a livello cutaneo. Ciò determina un aumento della gittata e della frequenza cardiache, e una riduzione delle resistenze vascolari periferiche, con diminuzione della pressione arteriosa. L’aumento del flusso sanguigno splancnico (addome e torace) è verosimilmente responsabile dell’incremento della temperatura cutanea prossimale, ovvero del torace e dell’addome, ed è quindi possibile che la temperatura misurata a livello ascellare nei pazienti con cirrosi sia lievemente più alta rispetto a quella dei soggetti sani. Vi è anche un aumento, seppure meno spiccato, della temperatura distale, ovvero degli arti. Questa situazione modifica il gradiente fra temperatura cutanea prossimale (torace e addome) e distale (arti), e impedisce il processo di vasodilatazione cutanea distale (arti) che contrassegna le prime ore della notte e quindi l’addormentamento. Al momento di andare a letto quindi, il paziente con cirrosi si trova in una situazione non dissimile da quella del soggetto normale che non riesca a riscaldare gli arti (mani e piedi) cosa che, come tutti sappiamo, rende difficile l’inizio del sonno.
D’altro canto, un aumento della temperatura può anche essere dovuto ad una infezione. Il paziente con cirrosi, infatti, è estremamente vulnerabile alle infezioni, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, quando la prognosi è condizionata non solo dall’insufficienza epatica ma anche dal coinvolgimento di altri organi (rene, cuore, cervello). Le infezioni sono una delle cause più frequenti di insufficienza epatica acuta su cronica e uno dei principali fattori che condizionano la mortalità nei pazienti in lista d’attesa per trapianto di fegato. Si tratta più spesso di infezioni delle vie urinarie, del liquido ascitico (peritoniti batteriche spontanee), delle vie respiratorie e della cute. Le manifestazioni cliniche e le alterazioni degli esami di laboratorio che tipicamente indicano infezione possono essere sfumate o comunque meno evidenti nel paziente con cirrosi rispetto ai soggetti altrimenti sani. Pertanto un aumento della temperatura anche modesto ma “percepito” dal paziente, soprattutto se accompagnato da segni o sintomi quali disturbi urinari, tosse, dolore addominale o arrossamento/lesione cutanea, non deve essere per nessun motivo sottovalutato.
Sara Montagnese
Ricercatore Universitario Confermato in Medicina Interna
Università
di Padova
Chiara Formentin
Specializzanda in Medicina Interna e Dottoranda in Epatologia
Università
Come cambierà la gestione della mia malattia di fegato presso il vostro centro per effetto della pandemia da covid 19?
La pandemia da Covid-19 ha certamente rivoluzionato la nostra vita in questa prima metà del 2020. Dall’inizio del lockdown, l’8 marzo 2020, tutti noi abbiamo vissuto esperienze che hanno modificato il nostro stile di vita, come il distanziamento sociale, l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, la limitazione degli spostamenti ecc. L’introduzione di queste misure ha avuto ovvie ripercussioni anche sulla gestione della salute sia dei pazienti con acuzie che di quelli affetti da patologie croniche, come le malattie croniche del fegato. Il paziente affetto da patologia epatica cronica è un paziente con un sistema immunitario più debole, che ha dovuto ridurre il più possibile il rischio di contagio, ma che allo stesso tempo necessita di un monitoraggio periodico ma costante, per prevenire la possibile insorgenza di complicanze. Come conciliare allora queste due necessità?
All’inizio del lockdown, era stata disposta dalla Regione Veneto la sospensione di tutta l’attività ambulatoriale specialistica ad
eccezione delle prestazio-
ni urgenti, da eseguire entro 24 ore (U) o entro 10 giorni (B). Il Centro Regionale per le Malattie di Fegato ha recepito questa indicazione garantendo nei mesi di marzo e aprile le valutazioni dei pazienti con cirrosi recentemente ricoverati o con una funzione epatica peggiorata rispetto ai mesi precedenti, in selezione o in lista d’attesa per trapianto di fegato e i pazienti già trapiantati, nonché i pazienti con neoplasia epatica. Nello stesso periodo, con l’aiuto di supporti telematici siamo stati in grado di monitorare la salute dei nostri pazienti meno gravi, visionando gli esami eseguiti a domicilio, modificando le terapie da remoto.
A partire dal 4 maggio, con la ripresa delle attività ordinarie, una nuova sfida si è posta a tutto il gruppo: come riprendere le attività garantendo la qualità presente prima del lockdown ma limitando il rischio di contagio? I pazienti che frequentano il nostro Ambulatorio Integrato sanno che, nella giornata di visita, gli esami programmati rendono spesso necessario aspettare in sale d’attesa gremite di pazienti. È stato quindi necessario considerare le condizioni attuali e riorganizzare l’ambulatorio, affidandosi in maggiore misura ai servizi periferici per l’esecuzione di esami bioumorali e indagini ecografiche di routine, mantenendo gli esami “in loco” solo per i pazienti più complessi. Un altro servizio fondamentale in questo momento, che verrà mantenuto per alcuni casi, è stato il teleconsulto, durante il quale il paziente poteva discutere con il curante il suo stato di salute tramite videochiamata. Questo ci ha permesso di riprendere a lavorare con gli stessi ritmi e la stessa cura che avevamo prima del lockdown, limitando i tempi di attesa e riducendo i possibili rischi di contagio.
È ancora presto per dire cosa succederà nei prossimi mesi, se le cose torneranno rapidamente alla normalità o se assisteremo a nuove ondate di infezione. Quello che la pandemia da Covid ci ha lasciato è però sicuramente un nuovo modo di gestire la visita del paziente con malattia del fegato. Potranno quindi cambiare le modalità con cui sono erogati i servizi, ma, con l’aiuto dei pazienti e di tutto il personale sanitario coinvolto, non la cura e l’attenzione con cui i nostri pazienti sono seguiti.
Marta Tonon
Medico specialista
Ho completato la terapia antivirale per HCV e avendo una cirrosi epatica non complicata, chiedo se devo ancora sottopormi a qualche controllo?
Gentile Signore, certamente dovrà continuare un monitoraggio epatologico fino a quando vi saranno segni indicativi di regressione della fibrosi epatica in atto.
La cirrosi epatica è una patologia che porta al sovvertimento della struttura anatomica ed alla alterazione fun-zionale del fegato, nel suo caso indotta dall’infezione virale HCV, ma può essere dovuta anche all’abuso al-coolico, di droghe, oppure al fegato “grasso” come nell’obesità. D’altra parte, il fegato è in grado di rigenerarsi e quindi è spesso confermata una riduzione della fibrosi e la ripresa della piena funzionalità epatica quando cessa il danno con l’eradicazione virale dopo il ciclo di terapia. Questo processo “di guarigione” può necessi-tare di anni, così come anche il danno epatico si era costituito lentamente nei decenni, e potrebbe permanere un certo rischio di sviluppo di complicanze legate alla cirrosi, come il sanguinamento da varici gastro-esofagee, lo scompenso ascitico, l’encefalopatia epatica ed in particolare l’insorgenza di tumore primitivo del fegato o epatocarcinoma.
Per questo motivo si impone una sorveglianza attiva nei casi con cirrosi epatica, attraverso il periodico control-lo (ogni 6-12 mesi) di esami di funzionalità epatica, dell’emocromo, dell’alfafetoproteina e l’esecuzione di eco-grafia dell’addome superiore.
Infine, un efficace metodo per monitorare la fibrosi epatica nel tempo è la misurazione non invasiva della rigidi-tà epatica e della milza con l’elastometria o Fibroscan®. Questo valido strumento ci può aiutare a definire i casi con maggiore necessità di controllo, per esempio identificando lo stadio di cirrosi con ipertensione portale, che risulta essere quello a maggior rischio di complicanze, nonostante la guarigione dall’infezione HCV.
Liliana Chemello
Specialista in Medicina Interna,
UOC Clinica Medica 5
Medicina Interna ad indirizzo Epatologico,
Lo snack notturno può prevenire l’encefalopatia?
L’encefalopatia epatica è una complicanza della cirrosi che si manifesta con un ampio spettro di segni e sin-tomi che comprendono irritabilità, rallentamento, alterazioni del comportamento e sonnolenza, fino al coma.
L’encefalopatia epatica è causata da un aumento nel circolo sanguigno dei livelli di ammonio e di altre so-stanze di origine intestinale che non sono smaltite adeguatamente dal fegato cirrotico e sono tossiche per il cervello.
La malnutrizione e la carenza di massa muscolare (sarcopenia) sono comuni nei pazienti cirrotici e i pazienti cirrotici con sarcopenia sono più a rischio di sviluppare encefalopatia, poiché la perdita di massa muscolare e il metabolismo di digiuno favoriscono l’iperammoniemia.
È quindi importante che i pazienti assumano un apporto calorico e proteico giornaliero adeguato (35–40 kcal/kg per peso corporeo ideale and 1.2–1.5 g/kg per peso corporeo idea-
le, rispettivamente), attra-
verso una dieta varia, senza particolari restrizioni e senza evitare le proteine animali. I pazienti intolleranti alle proteine animali (carne, pesce e uova), che comunque sono pochi, possono prediligere le proteine di origine vegetale e le proteine del latte, ed eventualmente assumere aminoacidi ramificati per via orale come supple-mento, qualora l’apporto proteico non risultasse suf-
ficiente.
Queste modifiche della dieta non sono necessarie molto frequentemente, e vanno discusse e gestite con cu-ra dall’epatologo di riferimento.
I pazienti con encefalopatia epatica dovrebbero evitare periodi di digiuno prolungato, per questo è consiglia-ta la suddivisione delle calorie giornaliere in pasti piccoli e frequenti, con l’assunzione di una merenda tra la colazione e il pranzo, tra il pranzo e la cena e, soprattutto, di uno spuntino serale per interrompere il lungo pe-riodo di digiuno tra la cena e la colazione.
Lo spuntino serale può comprendere uno zucchero complesso ed eventualmente una quota proteica (ad esempio pane/fette biscottate e uno yogurt arricchito da una bustina di aminoacidi ramificati).
È stato dimostrato che lo spuntino serale può concorrere a migliorare o quantomeno a mantenere uno stato nutrizionale buono, quindi ad eliminare uno dei fattori di rischio per l’encefalopatia.
Bibliografia
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Mangini C, Montagnese S. New Therapies of Liver Diseases: Hepatic Encephalopathy. J Clin Med, 2021; 10:40-50.
Merli M. et al. EASL Clinical Practice Guidelines on nutrition in chronic liver disease. Journal of Hepatology, 2019; 70:172-193.
Tsien C. et al. Late evening snack: Exploiting a period of anabolic opportunity in cirrhosis. Journal of Gastroen-terology and Hepatology, 2012; 27:430–441.
Chiara Mangini
Medico in formazione specialistica in Medicina Interna, Dottoranda in Scienze cliniche e sperimentali
Ho la colangite biliare primitiva e la alp superiore due volte la norma: c’è indicazione a prendere l’acido obeticolico?
conseguente scomparsa dei piccoli dotti biliari nel fegato, a seguito dell’aggressione a danno delle cellule che li rivestono da parte del sistema immunitario. In particolare, per una complessa serie di cause, l’organismo produce degli anticorpi che aggrediscono dei piccoli organelli all’interno delle cellule, chiamati anticorpi anti-mitocondrio (AMA).
Questa malattia era precedentemente nota come cirrosi biliare primitiva; la sua denominazione è stata modificata per meglio rispecchiare le alterazioni osservate in corso di malattia a livello del tessuto epatico nonché la sua evoluzione nel tempo, caratterizzata da una ottima sopravvivenza e della quale lo sviluppo di cirrosi epatica non rappresenta affatto un evento ineluttabile. Con l’avvento del trattamento con acido ursodesossicolico (UDCA), peraltro, la maggior parte dei pazienti ha raggiunto una aspettativa di vita normale.
L’UDCA è il farmaco di prima scelta nel trattamento della colangite biliare primitiva, al dosaggio di 13-15 mg/kg. Seppur sintetizzato in laboratorio, si tratta di una molecola normalmente presente nel nostro organismo. L’UDCA viene infatti prodotto, a livello intestinale, da batteri che modificano un componente presente nella bile secreta dal fegato. La sua azione si esplica rendendo la bile più fluida, quindi più facilmente eliminabile dal fegato, proteggendone così le cellule dall’azione tossica legata al ristagno biliare.
Non in tutti i pazienti si osserva purtroppo una risposta al trattamento con UDCA. Valori di fosfatasi alcalina (ALP) superiori a 1.5 volte la norma dopo 12 mesi di trattamento con UDCA rientrano tra i criteri per definire inadeguata la risposta al trattamento. Per questo gruppo di pazienti, le linee guida prevedono la possibilità di aggiungere un altro farmaco alla terapia con UDCA, chiamato acido obeticolico.
L’acido obeticolico agisce a livello di particolari recettori del nucleo delle cellule, chiamati FXR, coinvolti nella regolazione della produzione, della secrezione e della detossificazione dei componenti della bile. Nello studio che ne ha portato all’autorizzazione all’impiego, l’acido obeticolico si è dimostrato in grado di ridurre sia la fosfatasi alcalina che la bilirubina in maniera significativa nel gruppo di pazienti in trattamento rispetto a coloro che assumevano un finto farmaco (“placebo”). Il dosaggio iniziale è di 5 mg una volta al giorno, aumentabile a 10 mg se dopo sei mesi di terapia non si è ottenuta una adeguata riduzione della bilirubina o della fosfatasi alcalina.
Al momento della prescrizione, bisogna porre attenzione alla storia clinica del paziente ed al suo stato di malattia, essendo l’acido obeticolico controindicato nei pazienti con cirrosi epatica scompensata (incluse le classi B o C di Child Pugh) o che hanno avuto episodi di scompenso.
Il principale effetto collaterale della terapia consiste nel prurito grave, che può essere gestito con antistaminici, resine leganti gli acidi biliari o riducendo la dose/sospendendo temporaneamente il farmaco.
Carmine Gabriele Gambino
Medico Specializzando in Medicina Interna
Università
di Padova